Si sottolinea sempre più di come siano venuti meno i grandi maestri del teatro di regia. In quest’ottica, se capita da noi uno spettacolo diretto da Peter Brook non potete mancare all’appello.
Nella cornice della 33esima edizione del RomaEuropa Festival, è stato presentato l’ultimo suo lavoro, The Prisoner, in co-regia con Marie-Hélène Estienne, dimostrando ancora una volta di come il suo modo di fare e vivere il teatro sia una sintesi di culture.
Quando si entra in sala si coglie immediatamente uno degli elementi caratterizzanti di Brook: l’essenzialità. In una scena scarna (curata da David Violi), che vuole evocare il deserto fisico e lo smarrimento interiore, pian piano iniziano a muoversi gli uomini, forte di quanto sia importante l’uso del corpo per questo artista e i suoi attori. Brook già negli anni ’60, con ‘Re Lear’, era giunto alla conclusione che per fare teatro bastasse: un attore, uno spettatore e uno spazio vuoto. Lo ha teorizzato in ‘The Empty Space’ e coerentemente ha proseguito anche nel connubio con la sua storica collaboratrice.
“Un uomo siede da solo davanti a un’enorme prigione in un paesaggio desertico. Chi è? E perché si trova in questo luogo? È una sua libera scelta oppure sta scontando una qualche forma di punizione? E coloro che sono dentro il carcere che crimini hanno commesso? Come guardano a loro volta l’uomo che li sta osservando?” (dalla sinossi).
A caldo, a conclusione della rappresentazione, si percepisce uno stordimento, quasi a voler decifrare subito ogni gesto a cui si è appena assistito. Va detto che il punto di partenza è un’esperienza personale vissuta dal regista del ‘Mahabharata’ (1985), incontrando in Afghanistan un uomo (che in scena è Ezechiele), il quale insistette per portarlo da un suo allievo, accusato di un crimine impronunciabile.
Il lavoro tratta temi esistenziali come colpa, punizione e perdono, lasciando lo spazio allo spettatore di immaginare quando sono il corpo e i silenzi a parlare. Spetta a una donna il ruolo di traghettarci nella storia (vestendo i panni dell’alter ego di Brook). Il prigioniero, di nome Mavuso, ha ucciso suo padre (una delle colpe narrate sin da principio, nei classici). Il motivo scatenante è dato dall’averlo trovato a letto con sua sorella, da cui è ossessionato. Lo zio Ezechiele assolve alla funzione di saggio, portando suo nipote a riflettere e a compiere un vero e proprio percorso spirituale (come ve lo lasciamo scoprire).
A parte alcuni momenti in cui cala l’intensità – forse anche volutamente, quasi a voler dar vita a una sospensione intendendola sia rispetto al giudizio che come meditazione – The Prisoner mette in scena con delicatezza dei valori da riscoprire, con cui bisogna fare i conti eprobabilmente il teatro è un veicolo migliore di altri per farlo.
“Il ruolo del teatro non è quello di dare lezioni. Il regista non deve inculcare delle idee nella testa del pubblico”, ha dichiarato Brook, il quale, fedele a questo concetto lascia molto “potere” alla relazione che si crea tra attori (un ottimo cast costituito da Hiran Abeysekera, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan, Hayley Carmichael), ciò che accade in scena e platea, facendo in modo che le suggestioni prendano corpo pian piano, sedimentandosi e accompagnando nei giorni successivi alla visione.
“Il teatro è un viaggio, che ci porta da un punto a un altro, attraverso un percorso che è insieme condiviso e individuale” (richiamando le parole di questo maestro della scena). Bisogna essere, però, disposti a compierlo.
Riassumendo
The Prisoner dall’11 al 20 ottobre
Teatro Vittoria per RomaEuropa Festival
DURATA: 75′
ORARI: venerdì 19 h 21; sabato 20 h 16 e h 21
PREZZI: platea 45€; galleria 30€
NOTA BENE: lo spettacolo è in inglese con sovratitoli in italiano
The Prisoner sarà in scena anche al Teatro Cucinelli di Solomeo 23 – 24 ottobre 2018 e al Teatro Nazionale di Genova dall’11 al 13 aprile 2019.